Lorenzo racconta la propria esperienza in bicicletta lungo la Francigena, verso Roma. Una di quelle avventure che si ricordano per tutta la vita.
Da diverso tempo mi frullava in testa un’idea fissa: percorrere la Via Francigena in bici.
Per chi non lo sapesse, la Via Francigena è un percorso antichissimo. Fa parte di quelle strade medioevali chiamate “Vie Romee”, nel senso che “portavano a Roma”: parte da Canterbury, in Inghilterra, attraversa tutta la Francia, valica le Alpi per discendere verso la pianura padana e si dirama nei meravigliosi paesaggi toscani, dalle colline lucchesi alle crete senesi per terminare nell’abbraccio barocco di piazza San Pietro.
Da Torino – punto di partenza – sono suppergiù 850 chilometri.
Ho passato qualche anno a chiedere – invano – a qualche amico di accompagnarmi in questa avventura, ricevendo sempre risposte negative; così, dopo un po’ di tempo passato a correre maratone, ho deciso finalmente che era arrivato il momento di provarci.
Da solo.
Mi sono comprato una mountain bike nuova della Bianchi, un portapacchi, i parafanghi e via! Direzione Roma.
La fase della preparazione si rivelò, come capita spesso, quella più fastidiosa, noiosa e meticolosa. Ansia di partire, e pulsioni ossessivo-compulsive nel curare tutti i dettagli, più e più volte: dormirò qui, dovrò fare tot chilometri, devo allenarmi fino a quel punto, devo mangiare con equilibrio… Non cose che mi facevano stare benissimo, ero la personificazione dell’agitazione. Ho passato mezza dozzina di notti per cercare di caricare le mappe gps sull’orologio, cosa che la maggior parte degli under 15 suppongo risolva bendato e con la mano destra legata dietro la schiena. Ma io sono un non-tecnologico fatto e finito, ho appena aperto una corrispondenza diplomatica col microonde e siamo ancora ai saluti formali (conto per Natale di arrivare a darci del tu e poi, chissà, potremmo anche finire per volerci bene): vi sarà facile immaginare l’esito dell’operazione “scarica le mappe/aggiornale/convertile nel formato adatto/caricale/impara a usarle”.
Finalmente il giorno della partenza arriva, ad inizio giugno: le previsioni meteo sembrano essere dalla mia parte, per la prima settimana è previsto sempre il sole (ed effettivamente è poi andata così: un gran sollievo, non posso immaginare cosa sarebbe stato percorrere chilometri e chilometri di sterrato con una bici carica sotto il diluvio).
Parto da Sassi, quartiere di Torino che pur non essendo vicino al centro si fatica a definire “periferia”: case basse, qualche giardino, il fiume che scivola molle nell’odore dell’erba di giugno e il verde vitale della collina sullo sfondo.
La mia intenzione è percorrere la Via il più possibile senza deviazioni sulla Strada Statale: percorso originale, buche, polvere, alta fedeltà. Munito di cartine (nel senso vero e proprio del termine: il “progetto gps” è naufragato miseramente), mi sono segnato con l’evidenziatore gli sterrati più selvaggi. Per ficcarmici dentro con tutto me stesso, ovviamente: questa avventura ha un senso solo se e nella misura in cui mi mette alla prova.
Il clima è torrido, i primi tre giorni supera anche i 40 gradi di temperatura: nelle risaie del vercellese non è proprio una notizia magnifica, a cui si aggiungono zanzare che arrivano in stile Apocalypse now, con tanto di Wagner in sottofondo. Il primo giorno scorre alla grande, fatta eccezione per una foratura nella ruota posteriore in pieno “deserto vercellese”, sperduto tra i canali.
La bici è molto pesante (20 kg), ma scorre che è un piacere.
La preparazione schizofrenica mi ha regalato un’agendina piccola ma zeppa di contatti: si tratta di numeri di telefono di case di accoglienza, parrocchie e monasteri sulla Via. In cambio di un’offerta libera mi offrono una brandina, una coperta e una doccia.
Le prime due tappe (Torino-Pavia; Pavia-Fidenza) sono abbastanza piatte e monotone, dalla terza si comincia a fare sul serio: il Colle della Cisa è la mia personalissima Cima Coppi. Seicento metri di dislivello distribuiti su una ventina scarsa di chilometri mi separano dalla Versilia, e alla base sembrano veramente insormontabili con una bici così pesante.
La fatica è veramente immensa, ma una volta scollinato posso fermarmi a dormire a Pontremoli in una comunità di monaci con un’abbazia molto accogliente.
Il giorno dopo un amico mi aspetta a Viareggio: per questo nei primi giorni ho “tirato”, per portarmi avanti nei km e concedermi una giornata di “riposo”, che prevede solo 60 km.
Ad ogni modo, in quattro giorni prima di arrivare in Versilia ne ho già macinati molti più di 400, quindi sono più che soddisfatto.
Dicevo all’inizio di quanto è bella la Toscana. Magnifica Toscana, davvero: peccato che in questa terra non esista un metro di pianura, salita e discesa costanti (o mangia e bevi, come dicono loro). Dopo il mio giorno viareggino a ritmi più bassi inizia il pezzo più duro.
La tappa è Viareggio-San Gimignano attraversando Lucca e tutta la Valle del Montalcino: gli ultimi 30 km sono un inferno, San Gimignano la vedi sempre lì ma sembra non arrivare mai, e una “crisi di fame” mi coglie all’improvviso sotto il sole cocente.
Entrato finalmente nelle porte di San Gimignano mi dico: “Lorenzo, va bene tutto, il sacrificio, il pellegrinaggio e quello che vuoi, ma stasera dormi in albergo”. Ebbene si, ho ceduto alla tentazione. La vasca da bagno mi è sembrata la cosa più bella che potesse esistere…
Sveglia! si riparte per un’altra tappa durissima ma dal paesaggio mozzafiato, percorrendo le vie del Brunello. San Gimingnano-Acquapendente (nel Lazio) passando per Siena e la Valle del Montepulciano.
All’arrivo a Siena mi attende Maurizio, un mio caro amico che ha deciso di accompagnarmi per gli “ultimi” 350 km senza un briciolo di allenamento sulle due ruote: un grandissimo.
Avere un compagno è una cosa molto rasicurante: sapere di avere un appoggio nel caso succedesse qualcosa non è affatto male.
Anche questa tappa è molto dura, ma dal giorno dopo si respira già aria di arrivo. Acquapendente-Laghi di Bracciano non è particolarmente impegnativa, si passa per Viterbo, le strade sono molto più brutte e in cattivo stato rispetto alla Toscana ma ormai si contano solo i km che ci separano da Roma.
Finalmente si arriva a San Pietro. Ci teniamo l’ultima tappa molto corta appositamente per poter festeggiare l’arrivo a Roma in grande stile, con soli 50 km. Fortunatamente entriamo nella Città Eterna la domenica mattina presto ed il traffico non è così caotico. Rischiamo la vita solo in un paio di occasioni.
Siamo elettrizzati, ce l’abbiamo fatta veramente! Senza appoggio logistico, con una bici discreta e stracarica e con poco allenamento! La sera si festeggia con un bel po’ di birre e spritz!
È stata un’avventura che ricorderò tutta la vita: il mio progetto ora è ovviamente di farne altre.
Sarebbe bellissimo poter avere il tempo per partire da Torino ed andare fino a Santiago di Compostela (dove ho gia fatto il pellegrinaggio a piedi): una qualcosa come 1800 chilometri di percorso, si tratta solo di trovare un po’ di coraggio. Ma l’idea di essere da solo con (e contro) la natura, la bicicletta è elettrizante, e la fatica è una droga potentissima, una cosa che ti rigenera.
Mentre sei da solo coi tuoi pensieri, coi muscoli massacrati e il solo desiderio di un riparo alla fine della tappa fai i conti con te stesso, i tuoi dolori, le tue preoccupazioni, i tuoi obiettivi, la tua determinazione: questo è quello che chiama “capire le cose veramente importanti della vita”. Anche per questo percorso, del tutto interno alla propria anima, ci vanno allenamento e intraprendenza.
Lorenzo Bertoldini
Fonte e sito con articolo: Tagli